Na terras do fim do mundo
Ft.: Simonetta Rossi
La Repubblica Popolare d’Angola, ex colonia portoghese, è un paese dell’Africa australe infelicemente famoso a causa della interminabile guerra in corso ormai da più di 25 anni. Il colpo di stato che si verifica a Lisbona nell’aprile 1974 accelera il processo di decolonizzazione che termina con un accordo di indipendenza tra Portogallo e movimenti di indipendenza nel novembre 1975. Alla sua ascesa al governo, il Presidente Agostinho Neto trova però la resistenza del Fronte nazionale di liberazione dell’Angola (FNLA) e dell’ Unione nazionale per l’indipendenza totale dell’Angola (UNITA). In un clima di guerra civile la presidenza passa nelle mani del successore José Eduardo dos Santos che, attualmente in carica, è alla guida di un paese devastato dalle continue rappresaglie dei ribelli.
Come accade ormai dalla fine della seconda guerra mondiale le vittime di questi conflitti non sono più i soldati al fronte, ma i civili, donne e bambini per lo più che, accidentalmente, azionano quelle che sono le più subdole tra le armi utilizzate dai paesi poveri: le mine anti-persona.
Si calcola che in un paese con 12,5 milioni di abitanti come l’Angola ci siano 15 milioni di mine disseminate sul territorio, in prossimità di fonti d’acqua, di campi coltivati, di ponti e ogni altro cammino obbligatorio. Le vittime delle mine non si contano.
InterSOS, Organizzazione non Governativa italiana impegnata da anni in campagne e progetti sullo sminamento, ha avviato a settembre 1999 un progetto per la costruzione di un centro ortopedico per la produzione di protesi e il trattamento delle vittime delle mine a Menongue, città principale della provincia del Kuando Kubango, in Angola appunto.
In questo contesto Fisioterapisti senza Frontiere è stato parte attiva mettendo a disposizione di InterSOS fisioterapisti preparati al fine di formare personale locale così da rendere autonomo il centro in tempi relativamente brevi.
La mia esperienza, durata un anno, è stata segnata da due periodi: un primo periodo in cui ho completato il programma di formazione per il livello tibiale (Cominciato dalla collega che mi ha preceduta per 7 mesi), e un secondo periodo in cui, con il centro ormai terminato, si è passati alla produzione e al trattamento veri e propri.
Il progetto prevedeva di formare anche dei tecnici ortopedici e per questo scopo è stata prevista la figura di un operatore che svolgesse le lezioni specifiche sull’argomento.
In pratica il personale locale scelto all’interno di una rosa di candidati selezionati fra gli infermieri dell’ospedale provinciale di Menongue ha seguito un corso specifico sul trattamento e la produzione di protesi per amputazioni a livello tibiale della durata di undici mesi; durante questo periodo sono state effettuate ore di lezione in comune e ore di lezione separate fra coloro che poi, superato un esame finale, avrebbero dovuto diventare “fisioterapisti” e coloro che avrebbero dovuto diventare “tecnici ortopedici”.
I ritmi di lavoro sono stati piuttosto duri in quanto si sa che partendo per missioni simili non si può, e non si riesce, ad attenersi a quelli che sono i compiti strettamente legati al progetto. Anche se il fronte di guerra è relativamente lontano, quotidianamente si fanno i conti con vittime di agguati, di mine, di attacchi, col reclutamento forzato (Come quella volta che durante una lezione un maggiore dell’esercito entrò in aula per arruolare quattro ragazzi, tra l’altro molto bravi, giustificando il suo comportamento con uno slancio di patriottismo così forte da superare qualsiasi altra cosa, compresa l’istruzione e la possibilità di crescita professionale) si sente il rombo degli aerei che proprio a Menongue partono e atterrano, bisogna accogliere i profughi che, spesso “utilizzati” come scudi umani arrivano dalle province più disastrate (Se ne esistono di più disastrate del Kuando Kubango!) denutriti, senza abiti, senza più speranza ma solo rassegnazione per essere entrati anche loro in un vortice che ha già travolto i padri, i fratelli, i figli…
In un paese ove la speranza di vita è di 45 anni, in una provincia ove manca l’acqua potabile e l’energia elettrica è un optional, in una città con un perimetro di sicurezza di dieci km, in un ospedale così fatiscente da evocare la fuga appena si entra e ove lavora un solo medico locale, si può immaginare che le difficoltà logistiche incontrate siano state molte: per niente gli stessi angolani chiamano questo posto “…a terra da fim do mundo…”.
Al contrario con la popolazione locale e in particolar modo con gli alunni le cose sono andate benissimo: la motivazione prima di tutto è stata la molla che ha aiutato tutti a perseverare facendo fronte alle mie difficoltà di comunicazione (Ho dovuto imparare il portoghese in quattro e quattro otto), alla mancanza di materiale iniziale, alla necessità di cambiare il modo di vedere le cose (Per entrambe le parti) e metodo di studio, all’impellente bisogno di sensibilizzare la gente affinché non venda la protesi o le stampelle appena ricevuti.
Si è lavorato tanto: parallelamente alle lezioni teoriche è stato effettuato un censimento degli amputati presenti in città e nelle immediate vicinanze al fine di poter programmare gli interventi nel momento in cui il centro ed il personale sarebbero stati pronti. Per ogni paziente si è deciso se necessitava di un intervento senza ricovero al centro (Ad esempio per quelle persone che vivono vicino al centro stesso), se necessitava di un intervento chirurgico di rimodellamento del moncone, se necessitava di evacuazione nella capitale o in altre città con strutture più adeguate ai suoi bisogni. In questa categoria rientravano tutti gli amputati a livello femorale in quanto come ho già detto la prima parte del progetto prevedeva lo studio del livello tibiale (In questo momento la collega che mi sostituisce sta proseguendo con la formazione). Gli alunni hanno poi effettuato un esame finale ed alcune settimane di tirocinio presso centri già avviati della Croce Rossa o di Handicap International con i quali la collaborazione è stata ottima.
A questo punto si è partiti con la fase produttiva utilizzando, come prevede un accordo tra Ministero della Salute Angolano e le varie ONG internazionali, la tecnologia e la componentistica della Croce Rossa. Quindi non ci si è avvalsi di materiali poveri come cuoio, pelle, legno come invece spesso accade in queste situazioni. Alla valutazione effettuata in fase di censimento, è seguita una valutazione funzionale e quindi per ogni paziente è stato impostato un programma riabilitativo volto al recupero del tono muscolare, dell’equilibrio, etc..
In un contesto ambientale ove i valori della vita spesso perdono valore, ove le madri sanno che i loro figli se non sono saltati su una mina in tenera età presto partiranno per il fronte, ove la malnutrizione, le malattie, l’ignoranza e la legge del più forte la fanno da padroni, ci si chiede qual è il senso di questi interventi. La difficoltà più grande è stata proprio quella di trovare una giustificazione alla nostra presenza che andasse oltre a quella che è la soddisfazione dei nostri bisogni. In effetti trovandomi di fronte a persone che senza una gamba comunque riescono ad avere una vita normalissima, con dei figli, con una attività quale può essere la coltivazione di un piccolo appezzamento di terra, e che ogni giorno percorrono svariati chilometri per procurare legna da ardere o acqua camminando su terreni accidentati e pieni di insidie, mi è venuto da ridere al pensiero di creare al centro un’area con piani inclinati o sconnessi. In questa realtà ho capito qual è il significato vero della parola “handicap” e come nel cosiddetto mondo industrializzato ancora una volta sono le nostre barriere mentali a creare ostacoli ed intolleranza. A tal proposito ricordo un giorno in cui con una collega, passeggiando in un quartiere incontrammo una ragazza amputata al braccio destro e a livello femorale ad entrambi gli arti inferiori: aveva calpestato una mina giocando quando aveva tre anni. Al suo fianco un bimbetto di cinque anni e al collo un neonato, si spostava su un triciclo e si stava recando a scuola. Dopo una breve conversazione, con il sorriso sulle labbra si è congedata facendoci notare che le mezze donne eravamo noi che, a più di trent’anni ancora non avevamo avuto figli! Ho pensato a quanto siamo superbi, supponenti, presuntuosi, eppure così fragili davanti alle difficoltà, contrarietà, preda di depressioni pur con le vaste possibilità che invece abbiamo. Questa esperienza è servita per mettermi in discussione, per sorprendermi di come si può vivere con molto poco, riuscendo a fare a meno di molte cose che inizialmente sembrano indispensabili. Tutto ciò che a noi può sembrare sconveniente o irrinunciabile, in Africa acquista una relatività tutta speciale: la vita e la morte ad esempio sono avvenimenti “normali”, fanno semplicemente parte del ciclo a cui siamo chiamati. Le preoccupazioni per il futuro, l’avvenire, l’aspettativa di vita, la carriera non esistono.
Tutto è subordinato all’evitare la malaria piuttosto che la TBC, a non trovarsi sulla traiettoria di una pallottola sparata a casaccio da uno dei tanti soldati, o allo schivare una mina su cui puoi mettere un piede!