Alla bellissima esperienza di Comiso
Ft.: Simonetta Rossi
Dal 25 giugno al 6 luglio ’99 ho lavorato al campo profughi di Comiso (Sicilia). Che esperienza ragazzi! Fisioterapisti senza Frontiere ha avuto la possibilità di partecipare alla “Missione Arcobaleno” inviando i propri volontari ed io, ho preso la palla al balzo.
Il campo profughi era (ormai lo stanno smantellando) situato nella ex base Nato, alla periferia di Comiso, in quella che fu una delle principali cittadelle americane in Italia ai tempi della guerra fredda. Gli americani se ne sono andati definitivamente alla fine del 1992 ed ora, non rimangono che tutta una serie di strutture chiuse, una grande pista aerea ed i bunker ove erano posizionati i missili pronti per l’offensiva. Questo paese può ospitare parecchie migliaia di persone e, quando vi sono stata io, si contavano più di 6000 presenze fra kossovari, albanesi, rom, volontari, esercito. Nel mezzo, la pista d’atterraggio divide questa superficie in due zone: quella italiana ove si trovavano le sale operative, gli uffici, il Pronto Soccorso della Croce Rossa Italiana, gli alloggi dei militari e dei volontari, le mense (kossovara e italiana), la chiesa, l’ex piscina, i campi da calcio, pallavolo…e le abitazioni (villette a schiera) ove vivevano i primi ospiti; quella americana ove si trovano i magazzini che contenevano gli aiuti umanitari, la seconda mensa kossovara, l’ex-ospedale, l’ex-cinema, l’exteatro, l’ex-scuola, il PS dell’A.N.P.AS (organizzazione per mezzo della quale FsF ha potuto entrare nel mondo del volontariato) ed ancora villette a schiera, tutte occupate.
Il mio intervento è stato mirato innanzitutto a continuare (ove possibile) l’operato dei due colleghi che mi avevano preceduta e quindi ad impostare trattamenti nuovi così da cercare di supportare più persone possibile. I pazienti si recavano ai vari PS ove il medico di turno (dal ginecologo all’ortopedico) prestavano le cure del caso e quindi o me li segnalavano o richiedevano una visita specialistica da parte del fisiatra. Il fisiatra era presente al campo una volta alla settimana e finite le visite compilava una lista per il fisioterapista. Purtroppo nel periodo in cui ha lavorato io, non era presente la collega siciliana così ho dovuto cercare di organizzare il mio intervento partendo da zero. La giornata tipo era piuttosto lunga: sveglia alle 7 e a letto…chi se lo ricorda, credo di aver dormito una media di 4 ore per notte! Durante la giornata mi recavo al domicilio dei pazienti ed ogni trattamento non durava mai meno di 1 ora. Come patologie si spaziava dalle tetraparesi da sofferenza neonatale, ai problemi tipici della terza età, ai traumi ortopedici ed ahimé alle lesioni provocate dalle percosse inflitte dalla milizia serba nel corso delle rappresaglie ai danni dei kossovari. Inoltre tutta una serie di lombalgie a mio avviso scatenate più da un disagio psicologico che da una causa organia. Terminati i pazienti, il lavoro si spostava al PS ove offrivo il mio piccolo contributo steccando sospette fratture, immobilizzando presunte rotture di legamenti,
medicando escoriazioni …altre volte ci si recava ai magazzini a procurare farmaci, bende elastiche, stampelle e tutto quanto fosse necessario per poter lavorare nelle migliori condizioni.
Si è creato presto quindi, una sorta di volontariato nel volontariato ove tutti, dopo aver svolto i compiti per cui erano stati chiamati, si prodigavano per alleviare lo stato di disagio in cui si trovavano gli ospiti. Ecco perciò che alla sera cominciava la vita, quella vera, fatta di giochi con i bambini, di balli popolari, di scambi, di amicizie, inviti a prendere il caffé, conversazioni, e passeggiate sù e giù per la strada principale del paese come si usa ancora anche in Italia nei piccoli centri. Ed è questa secondo me la fase più importante della giornata: solo in questo momento infatti ti rendi conto di quanta sofferenza ci sia dietro gli occhi di quel bambino che ti offre una mela, o di quella ragazza che ti regala una cassetta di musica kossovara, unico oggetto salvato dal rogo delle fiamme che le hanno distrutto la casa e, con essa, i ricordi di una vita che non tornerà più, ma che dovrà cominciare da zero, tra mille difficoltà. In questi momenti ci si rende conto di cosa significhi “fare del volotariato”. Non è sicuramente una buona azione che uno più di un altro si sente di fare, non è sicuramente una situazione in cui quello che sembra il più forte aiuta il più debole, non è qualcosa per cui ci si deve aspettare dei ringraziamenti o un attestato di merito. E’ cercare, in una situazione di emergenza, di creare uno scambio equo tra le parti, ognuna offrendo quello che può, nel rispetto della dignità delle persone. A questo punto devo spezzare una lancia in favore di tutti i volontari con cui ho lavorato, persone incredibili, con una marcia in più, con le quali si è instaurato subito un clima di collaborazione e cooperazione. Con questo non voglio dire però che son tutte rose! Ho dovuto rendermi conto che non tutti hanno lo stesso spirito; c’é sempre quello che vuole guadagnarci sopra o che vuole sfruttare la situazione e, in alcuni casi, si è rischiato grosso per aver messo il naso dove non c’era permesso. Per fortuna sono stati degli episodi sporadici, conseguenze di uno stato di caos in cui tra molteplici organizzazioni piene di buoni propositi manca una coordinazione forte.
Ritengo comunque più che positiva l’esperienza vissuta, sia dal punto di vista umanitario che professionale. per quanto riguarda quest’ultimo infatti ho potuto constatare che passata la fase di emergenza vera e propria, la figura del fisioterapista è molto utile all’interno di un campo di accoglienza … purtroppo di lavoro ce n’é tanto!
Martedì 6 luglio, ore 4 a.m., al campo è quasi l’alba, il cielo è limpido, stellato, un vento caldo soffia da sud-est, è calato il silenzio dopo una notte di festeggiamenti: finalmente i primi 560 profughi partiranno, potranno tornare in patria … è calato il silenzio, si sente solo il rombo dei motori dei camion dell’esercito … ditenmir Comiso.