Deserto Kenya

Esperienza nel deserto del Kenya

Esperienza nel deserto del Kenya

Ft.: Alessandro Rizzi

John Paul II – Lokichar – Kenya

 

Non ci potevo credere, finalmente ce l’avevo fatta, ero giunto in Africa, ero nel deserto. Il caldo era angosciante, il vento era costante, secco, bollente tanto che sentivo pizzicare la pelle. L’odore era acre e, mentre scendevo dall’aereoplano a quattro posti dopo un volo terrificante di oltre 800 km dall’altopiano di Nairobi alla pianura desertica dove si trova il villaggio di Lokichar, tra le acacie rade e qualche capra, scorsi dei bambini che erano giunti a vedere chi scendesse dal velivolo. La sensazione fu davvero forte, indescrivibile. Il caldo, l’odore dell’aria mai sentito prima, i bambini e questa distesa di nulla, interrotta solo dalla presenza di qualche collinetta o formazione rocciosa di forma conica probabilmente frutto di qualche attività vulcanica preistorica, mi consegnarono una sensazione di isolamento che mi spaventò, ma che prima di partire per questo viaggio mi auguravo di trovare, al fine di vivere un’esperienza di regressione, di privazione, di immersione nella vera Africa. Ero nella Rift Valley…sapevo perfettamente che attorno c’era solo deserto per decine, centinaia di km, che erano condizioni di vita alle quali non ero abituato ed il silenzio che nella mia quotidianità andavo spesso a cercare era…potente, tutto questo mi fece pensare di non essere nel luogo adatto a me, mi attraeva e mi respingeva l’idea di restare in quel luogo per un mese.
Erano almeno sei anni che desideravo questa esperienza, conoscere l’Africa cominciando dal suo profondo, dal suo cuore, dalla sua gente in modo da conoscerne l’anima, le abitudini e la mentalità.
Le immagini che conoscevo dell’africa erano della savana, dei tramonti infuocati che fanno da sipario ad alternarsi di colori e vita selvaggia di animali affascinanti durante il giorno e a notti stellate mozzafiato. Lì attorno non c’era nulla di tutto ciò, pensai che anche i colori della natura sembravano aver abbandonato questo posto, fino a quando quella stessa sera sentii levarsi al tramonto una brezza fresca che proveniva da est, dal lago Turkana e vidi calare la notte in un attimo ed…ecco le stelle comparire, a miliardi, così vicine…ed in loro mi rifugiai col pensiero.
L’emozione provata al primo impatto con questi luoghi non era nulla che potessi immaginare, ma non c’era nulla che avessi mai desiderato tanto ed è stato il ricordo di tutte queste aspettative che mi ha dato la forza per non cedere…poi l’orgoglio ha fatto il resto.

Mi accolse Dario, un missionario comboniano che mi presentò una carissima paziente. Si trova in Africa da oltre 25 anni. Ha dedicato i suoi sacrifici e gran parte della sua vita a sostenere le popolazioni al nord del Kenya, quali Pokot e Turkana, passando dagli altopiani di oltre 3 mila metri al deserto Turkana e pensai a come avesse trovato questo luogo al suo arrivo. Atterrammo sulla pista di atterraggio da lui voluta e resa operativa 6 mesi prima con manodopera locale pagata dalla missione. Prima, l’unico collegamento con la capitale era una statale (sulla cartina del Paese indicata come A-1) asfaltata con sovvenzioni estere nel 1983 (per agevolare il passaggio di macchinari per la ricerca del petrolio al nord del Kenya) e che da allora non ha mai goduto di manutenzione. Ora dell’asfalto rimane una striscia centrale irregolare con ai lati terra e sassi. Spesso la strada assume inclinazioni pericolose soprattutto per i mezzi pesanti.
Un fuoristrada giunge a Nairobi in 3 giorni, i camion in una settimana se non subiscono danneggiamenti o saccheggi (i camionisti vengono pagati una miseria e preferiscono abbandonare il carico piuttosto che rischiare la vita).
Mi trovai in quel luogo perché da molti anni desideravo svolgere un’esperienza in una missione africana. Appena seppi che Dario stava costruendo un centro per bambini disabili, mi proposi per andare a insegnare agli operatori locali le nozioni base per la riabilitazione dei bambini con patologie causate da problematiche pre, peri e postnatali, molto comuni purtroppo in queste condizioni di vita. Il mio fu un soggiorno breve, un mese, ma fu sufficiente per capire gli sforzi ed i sacrifici che compiono questi missionari per garantire una vita dignitosa a queste popolazioni. Io stesso mi scontrai con la mentalità e le abitudini di queste persone, cercando di insegnar loro ciò che potevo pur sapendo che probabilmente tutto (o quasi) ciò che stavo facendo sarebbe stato dimenticato. E’ davvero tutto così distante dal nostro modo di agire, pensare e vivere che all’inizio ti fa arrabbiare, poi pensi che in fondo per certe cose non è nemmeno colpa loro, che forse non è nemmeno giusto “inquinare” la loro mentalità con concetti che in mezzo ad un deserto non avrebbero molto senso. Dario mi fece riposare tutto il primo giorno, si accorse che l’impatto mi aveva scosso. Stetti tutto il pomeriggio nella missione, poi la sera col calare del sole andai a conoscere il villaggio.
La missione era lievemente appartata rispetto al centro vitale del villaggio. Addentrandomi tra le stradine di Lokichar potei scorgere momenti di vita famigliare all’interno delle Magnatta (nuclei abitativi dove vive un’intera famiglia) e riconobbi nelle donne delle figure estremamente presenti e fondamentali. Direi che rappresentano il motore di queste comunità. Accudiscono i figli, procurano acqua e cibo per l’intera famiglia. Gli uomini al contrario pur ricoprendo ruoli gerarchici importanti all’interno della comunità non partecipano affatto alla vita famigliare. Spesso li si può incontrare all’ombra di un albero intenti a dormire, magari mentre le capre sono al pascolo. Sono popolazioni nomadi, quindi il monitoraggio sanitario, il controllo delle nascite è spesso difficoltoso. Le condizioni di vita alle quali sono abituate queste persone non si possono nemmeno immaginare ed questa la realtà sociale che mi si presentò.

Più di qualche volta con un bambino disabile dinnanzi mi sono chiesto il significato di ciò che stavo facendo, sapevo che i consigli che potevo dare sarebbero stati ascoltati solo in parte dalle mamme che si aspettavano molto di più da me, qualcosa di impossibile, che rendeva frustrante la mia attività in questo luogo, la guarigione. Sono bambini che una volta finito il periodo scolastico di 3 mesi tornano ai loro villaggi, con le loro vecchie abitudini, dimenticando di utilizzare gli ausili e le ortesi ordinate su misura dalla missione, magari strisciando tra una capanna e l’altra, perché non c’è nessun genitore o fratello disposto a spingere la carrozzina semplicemente perché vissuti come un peso dai parenti e come una bocca in più da sfamare. Si potrebbe pensare, e l’ho fatto anch’io, che non ha alcun senso tutto questo lavorare se per questi bambini non c’è futuro, ma è un pensiero sbagliato. La missione garantisce istruzione, igiene e soprattutto assistenza; forse tale intervento non salverà tutti dalla povertà ed ignoranza, ma per qualcuno di loro è comunque una base per un futuro migliore o quantomeno la presa di coscienza che un futuro migliore è possibile se loro per primi vogliono migliorarsi. E’ anche vero che per qualcuno di loro non ci sarà futuro a causa delle gravi condizioni di salute, ma il centro gli garantisce giorni di integrazione, di gioco e gioia assieme ad altri bambini, anche sani. La cosa che mi colpì maggiormente fu la capacità di integrazione del bambino sano con quello malato, non si percepivano barriere, tutti giocavano con tutti. L’amputato che saltellando su una gamba gioca a calcio con il poliomielitico intrappolato nei suoi ingombranti tutori volti a bloccargli le ginocchia, il bimbo paraparetico che spinge la carrozzina del compagno di giochi e ancora ragazzi adolescenti che danno un aiuto agli operatori sociali per agevolarne l’attività coi bambini. Potrei descriverne a centinaia di situazioni simili che avvengono abitualmente e dalle quali dovremmo imparare molto
Durante la prima settimana di soggiorno passai gran parte del tempo a farmi accettare, a conoscere i bambini, le loro patologie ed i trattamenti a loro svolti. Scoprii ben presto che a questi bambini non veniva compiuto alcun tipo di trattamento fisioterapico. I consigli dati dalle mie colleghe durante la loro permanenza al centro qualche mese prima non erano stati applicati, gli ausili fatti costruire, dimenticati in magazzino. Rimasi sconfortato. Decisi che se non aveva funzionato il loro approccio, andava modificato qualcosa. Decisi di parlare con la Suor Cathryn direttrice del centro, di ascoltare ciò che i social workers avevano da dirmi perché da loro avrei capito quali potevano essere gli approcci più indicati per migliorare la situazione dei bambini e dare maggior sollievo alle famiglie. Mi feci accompagnare più spesso nei villaggi, dove riuscii a conoscere meglio l’ambiente nel quale i bimbi avrebbero dovuto vivere dopo il periodo scolastico e utilizzando il materiale ricavato dalla natura attorno (rami, tronchi, sassi, foglie di palma) confezionammo ausili. Inoltre invitai al centro le mamme dei villaggi più vicini allo scopo di insegnare loro pochi esercizi applicabili nelle loro capanne.
Vedere lo sguardo dei bambini cambiare nei miei confronti giorno dopo giorno ed il riconoscimento delle mamme che ho conosciuto nei villaggi fu un’esperienza incredibile. Mi chiesi come, pur non riuscendo a comunicare parlando ci si capisse con i gesti o con gli sguardi. Provai una sensazione piacevole di nudità, di assenza di maschere e per la prima volta in vita mia mi sentii me stesso completamente.
Mi colpirono le parole di Dario in una delle meravigliose sere stellate nel deserto in cui mi disse che nemmeno loro, dopo molti anni, sanno quale sarà lo sviluppo del centro, ma come per molti altri progetti in precedenza sarà il tempo a deciderne il futuro.
A distanza di un mese, durante il mio breve soggiorno alla sede della missione comboniana di Nairobi in attesa dell’aereo che mi riportasse in Italia conobbi un sacerdote. Accompagnò Dario durante i suoi primi passi africani e mi disse che, prima del loro arrivo, queste popolazioni non conoscevano nemmeno la ruota e la stoffa. Ma come? Pensai. Si tratta del Kenya, uno dei paesi più sviluppati dell’africa, ha tantissime risorse tra cui il turismo e a qualche migliaio di km costruiscono da anni villaggi turistici e lounge per ricconi e non si è mai pensato a queste popolazioni?! Poi ascoltandolo e ragionando su ciò che avevo visto capii molte cose. Capii che i problemi del paese e dell’intera Africa non sono certo le risorse e non si risolvono con iniezioni di denaro da parte di paesi occidentali, ma si trovano nei palazzi governativi dove ci si preoccupa solo di smistare le mazzette giunte in cambio di permessi o concessioni governative, richieste anche solo per la costruzione di pozzi, spesso per villaggi che hanno la fonte d’acqua più vicina a 40 km, o a una notte di cammino. Tutto ciò a gran vantaggio di stati europei o Stati Uniti che possono continuare a fare i propri interessi e manipolare l’economia di questi Paesi. Fu sconvolgente ascoltare le sue parole con quel tono. Mi gelò! Mi pregò poi di raccontarlo una volta arrivato in Italia, a chi volesse ascoltare.

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