Essere Fisioterapista in un piccolo villaggio nel Sud del Madagascar
ft. Irene Costa
Essere immersa in una realtà poverissima come quella del piccolo villaggio di Andavadoaka, nel sud del Madagascar, mi ha fatto ancor più rendere conto della fortuna che abbiamo noi fisioterapisti, ovvero del grande potere che abbiamo di fare molto, anche con poco a disposizione: il nostro più grande strumento sono semplicemente le mani, che guidate dalla mente e mosse dal cuore ci permettono di cambiare (almeno un po’) la vita delle persone.
Nel corso di quasi tre mesi come fisioterapista volontaria presso l’Hopitaly Vezo posso dire di aver vissuto un’esperienza ricca, intensa e gratificante dal punto di vista umano e professionale. Porterò nel cuore come tante stelle luminose i volti di tutte le persone con cui ho condiviso il mio tempo. A partire dai professionisti locali, infermieri, medici e mediatori culturali, che mi hanno fatto sentire parte di un cerchio in maniera del tutto naturale; l’équipe di volontari italiani che mi hanno dato tanta fiducia e riconoscenza dal primo all’ultimo giorno; la “mia” Lydie, mediatrice culturale, ogni giorno accanto a me per permettermi di lavorare con le persone e per assorbire tutto ciò che le potevo dare in campo riabilitativo; ogni piccolo (o piccolissimo!) e grande paziente che ha scelto di affidarsi a me e tutte le altre persone con cui ho condiviso uno sguardo, un sorriso, un “salama”, un gesto gentile.
Le difficoltà non sono mancate; all’inizio non era così facile fare i conti con la concezione africana delle priorità, inevitabilmente diversa dalla nostra. Ad esempio, nonostante l’accesso alle cure presso l’Hopitaly Vezo sia praticamente gratuita, alcune volte intraprendevo dei percorsi riabilitativi, dando forse per scontata l’aderenza ai trattamenti, e in seguito vedevo i pazienti “sparire” senza apparente motivo. Poi Lydie indagava, tramite il passaparola della gente del villaggio, e spesso si veniva a scoprire che avevano dovuto lasciare Andavadoaka per far ritorno a casa, perché le risorse per procurarsi da mangiare erano finite. E che potevo dire io? Che la riabilitazione era più importante di assicurarsi il pasto? No di certo. Altre volte era la distanza a frapporsi tra le persone e l’accesso alle cure: chi veniva da lontano e non poteva camminare per lunghe distanze doveva pagare un carretto trainato da zebù per arrivare in ospedale. Chi abitava in villaggio ad Andavadoaka era considerato più fortunato sotto questo punto di vista, ma quando fare anche solo fare qualche passo era difficoltoso a causa della patologia, oppure il bambino da portare sulla schiena iniziava a diventare grande e un po’ pesante, anche la strada di sabbia che dal villaggio portava all’ospedale diventava un ostacolo.
Le soddisfazioni, comunque, sono state molte. La realtà era sfidante e semplice allo stesso tempo. Ho avuto modo di mettermi all’opera con tante tipologie di pazienti: portando avanti il programma di screening neonatale già precedentemente impostato; valutando e trattando tanti bimbi con ritardo psicomotorio, paralisi cerebrale, epilessia, sindromi genetiche; seguendo il recupero dei pazienti adulti con esiti di ictus; trattando tanti, tanti pazienti con disturbi di natura muscolo-scheletrica e problematiche viscero-somatiche.
Un piccolo inventario delle soddisfazioni più belle che mi sono capitate in questi mesi; i loro nomi e le loro storie, in ordine sparso:
Deline: “Elle est forte. Elle est vraiment très forte” (è davvero molto forte) mi disse una volta Brando, il nostro medico specializzando che l’aveva presa in carico, dopo che una sera arrivò in urgenza in ospedale con segni neurologici suggestivi per un quadro di ictus. Qui naturalmente non c’è la risonanza, per cui non ci è dato sapere con certezza il tipo e la sede di lesione. Si guarda la clinica. Deline inizialmente mostrava una plegia completa all’arto superiore sinistro e parziale all’arto inferiore. Neglect, disfagia, disordini oculomotori. Nel giro di qualche giorno, però, stimolando i reclutamenti e l’attenzione all’emispazio sinistro, ha iniziato a rispondere molto positivamente, un recupero spontaneo che ci ha stupiti un po’ tutti, me per prima. In meno di 2 settimane siamo riuscite a riacquisire il cammino e anche una buona funzionalità dell’arto superiore e della mano. Sarebbe presuntuoso addurre solo al nostro lavoro riabilitativo questo recupero “eccezionale”. Di sicuro ho imparato che il corpo di un africano ha una capacità di sopportazione degli stress fisici imparagonabile rispetto a noi; e di pari passo la capacità di “reagire” e di recuperare rende spesso il lavoro del riabilitatore particolarmente soddisfacente 🙂 In Deline, persisteva ancora, anche ai controlli a distanza, una fastidiosa sensazione di vertigini e dolore (“marary”) al collo. Dopo qualche seduta di trattamento manuale si sono risolte anche queste. Sbarrò gli occhi e sorridendo mi disse un grande “Misaotra” (grazie) e se ne tornò finalmente a casa.
Florine: giovane donna di una trentina d’anni, arrivata da Morombe (la cittadina più vicina, a 50 km), poiché impossibilitata ad appoggiare il piede destro e, quindi, a camminare in seguito ad una ferita superficiale alla pianta del piede data da una spina, complicata da un’infezione, ormai ben guarita, ma che ha lasciato il posto ad un’importante quadro di algoneurodistrofia (SDRC). Dopo alcune settimane di lavoro graduale e paziente, Florine è riuscita a tornare a camminare in autonomia. Arrivò la voce a Morombe e rimbalzò indietro dicendo che la famiglia di lei ne era incredula. Mi rimarrà impressa l’espressione sul viso di Florine quando arrivò da me, perennemente affranta e sofferente. Ma rimarrà ancor più impresso il sorriso radioso quando ci salutammo per l’ultima volta.
Sambisoa: il migliore. 15 anni di ragazzo e una distonia marcata agli arti superiori da quando ne aveva 4, tale da rendere impossibili tutte le semplici attività quotidiane come vestirsi, mangiare o bere da solo. Accompagnato dalla mitica nonna, poiché la mamma non c’era più da molto tempo, abbiamo deciso insieme di lavorare per rendere più autonomo il momento del pasto, provando, inventando, costruendo gli adattamenti che potessero aiutarlo. Un aiuto fondamentale è stato quello di Dera, il nostro tuttofare, abile nella lavorazione del legno, che ha costruito per lui un tavolino adattato per contenere la ciotola di riso. Alla fine del percorso insieme, salutandomi, la nonna mi ringraziò parlando animatamente in malgascio e agitando le braccia. Chiesi quindi a Lydie di tradurre cosa mi avesse detto: “la nonna dice che è tanto contenta perché Sambisoa è diventato bravo a fare le cose con le mani e per questo le viene voglia di ballare per festeggiare”.
Remi Pepin: “l’uccellino”, l’avevo soprannominato dentro di me, perché quando è nato pesava come una piuma e ai primi controlli peso continuava a calare (fino a raggiungere i 1800 g a una settimana di vita). Così l’abbiamo ricoverato; preparavamo i pasti di latte artificiale e annotavamo gli introiti quotidianamente. Dopo 1 mese e mezzo, l’uccellino era ben cresciuto e la situazione era tranquilla dal punto di vista nutrizionale. Mi chiedo in realtà come sarà la sua strada, se le difficoltà iniziali fossero sintomo di cromosomi che hanno giocato un po’ o se invece se la caverà bene.
Michele: il “nostro” bimbo del villaggio con PCI. Un musetto con le guanciotte tonde che conquista tutti. Viene portato sulla schiena da Lucienne per venire a fare fisioterapia. Michele ha 2 anni e mezzo, non sta ancora seduto in autonomia, piange molto, perché fatica ad accogliere le novità. La sua routine consiste nello stare sempre con la mamma, per forza sempre in braccio, mentre lei vende il pesce a lato della strada, in villaggio. Per cui piange, la prima volta che si stacca dalle braccia della mamma per venire a tappeto con me. Piange quando gli proponiamo una sediolina in legno, costruita da Dera. Piange quando facciamo gli esercizi da seduto, quando gli mettiamo le scarpe, quando lo facciamo stare in piedi sulla statica costruita per lui. Ma piano piano si adatta e diventiamo amici, tanto che quando mi vede passare in villaggio sfoggia sempre un sorriso. Alle volte, in terapia, piange ancora e talvolta mi viene il dubbio che abbia semplicemente fame, no? E a volte effettivamente era proprio così. Il momento che porterò più nel cuore è quel pomeriggio in cui io e Lydie attraversammo il villaggio trasportando il tavolino da statica per Michele fino alla casa della nonna, sotto tutti gli occhi curiosi della gente, che si chiede cosa sia e a cosa serva, tra le grida scherzose di Lydie che dicono “in vendita!”. Arrivate alla casa, la famiglia si riunisce, posizioniamo Michi sul tavolino e per la prima volta lo vedo sorridere sereno. Ce l’abbiamo fatta!