Diario africano

Il mio quaderno africano

Il mio quaderno africano

Ft.: Barbara Maghini

 

“… questo è il mio quaderno africano. Oggi ho finito il libro Madre di 10000 figli, storia di Maggy, donna burundese che fonda la Maison Shalom tra gli orrori e i massacri avvenuti in Burundi nel 1993. Ho scorso i cenni storici e mi sono ricordata di quando da adolescente vedevo in TV le immagini dei campi profughi nello Zaire, in Uganda, in Burundi,… terre lontanissime (non solo geograficamente), che nel mio immaginario stavano ai confini del mondo. Ora sono qui, nel cuore dell’Africa orientale ad osservare con occhio occidentale questo popolo e questa terra che sembra bastare a sé stessa, che l’occidente e l’oriente hanno sfruttato, schiavizzato, colonizzato, inquinato,… e poi lasciato a sé stessa.

Non so se, come nel libro e venne chiamata due cuori questa possa essere davvero la ‘vera gente’… hanno tutti la pelle nerissima, gli occhi grandi profondi e luccicanti e i capelli crespissimi ed acconciati in strettissime treccine. Gli uomini sono asciutti e le donne hanno il sedere alto e la pancia, si scandalizzano nel vedere un filo di pancia nuda ma, ovunque siano, scoprono senza imbarazzo il seno per allattare il figlio che si portano come uno zainetto, avvolto nelle kangue coloratissime e su cui sono scritti i loro proverbi in swahili.

Non so se sia giusto che le donne diano alla luce così tanti figli, che l’istruzione non arrivi prima della tarda infanzia, che molte persone che vivono qui non siano mai andate al cinema o semplicemente fuori da Mlali o che la maggior parte dei giovani abbiano come unico futuro quello di seguire la vita contadina tramandata dai propri avi, senza possibilità di scelta… Non so se sia giusto che il mondo degli adulti sia così lontano da quello dei bambini, se ad una bambina di 6 anni siano tolti un po’ di gioco e un po’ d’infanzia per la responsabilità di accudire il fratellino di 4… Non so se sia giusto che Molisi a 12 anni sappia scrivere a fatica il proprio nome anche se di paretico, che Esta a 6 anni parli così poco e solo il dialetto della tribù di appartenenza, che Kalebi si muova strisciando… ma … anche se si muovono strisciando e cadendo in continuazione questi bambini non si fanno male, si accudiscono a vicenda e sono responsabili l’uno dell’altro e questa cosa è positivamente disarmante e diversa da ciò che si vede nei nostri bambini. E’ il risvolto positivo di una medaglia che vede un tessuto sociale profondamente diverso dal nostro in cui appunto chi è appena più grande è responsabile per chi è appena più piccolo, ma dove non è possibile l’anonimato, dove le madri non dimostrano grandi effusioni d’affetto ma trasmettono serenità, dove gli anziani vengono ascoltati attentamente, dicono poche parole ma, esprimono anche solo per il modo, qualcosa di essenziale.

Forse un po’ capisco perché questa gente non si sia modernizzata… non abbia cercato la tecnologia… basta guardare il cielo…
Il cielo qui è più grande, sembra più vicino, ma più profondo, le nuvole passano veloci e creano delle enormi zone d’ombra sull’altopiano poco più giù di qui e specie nelle giornate limpide il turchese intenso del cielo si sposa con i colori gialli, marroni e verdi delle colline circostanti ed il rosso intenso della terra, devo lo sguardo e la mente si può perdere per centinaia e centinaia di chilometri di apparente nulla…………”
Per la mia relazione su quest’esperienza ho scelto di prendere qualche parola delle molte altre che ho buttato giù durante quelle tre settimane. Sono un insieme di considerazioni, forse un po’ provocatorie a volte, forse stupide, ma che spero possano esprimere l’intensità e la profondità dell’esperienza che ho vissuto. La terra, il lavoro al Kituo, la missione, Mlali sono il mare, noi siamo delle gocce a confronto, ma il mare è composto di un’infinità di gocce, no?!

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