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Moro no Brasil: ciò che resta di un’esperienza umana

Moro no Brasil: ciò che resta di un’esperienza umana

Ft.: Sauro Macera

 

A metà agosto di quest’anno (2004) e per un mese, sono stato in Brasile, e più precisamente nella Baixata Fluminense , ospite del progetto Agua Doçe . E’ un progetto che seguo da un paio d’anni attraverso il circolo Arci di cui sono socio collaboratore. L’intenzione era quella di vedere la realtà a cui mi stavo interessando, conoscere le persone che la sostenevano e lavorare con loro: avvicinarmi in maniera esperienziale. Quando sono partito non riuscivo ad immaginare l’esperienza che avrei fatto in un Paese di cui conoscevo veramente poco tranne quei luoghi comuni che associano l’immenso Brasile al carnevale, al samba, alle spiagge, le favelas con i loro tristi primati di violenza e l’Amazzonia per quelli di distruzione dell’ecosistema, Lula presidente operaio…..
Conoscevo si anche i progetti avviati in quella zona, conoscevo indirettamente il responsabile e fondatore del progetto Agua Doçe (W.Boff), i suoi scritti, il suo impegno sociale in quell’area, ma era tutto così lontano, tutto così intimamente estraneo pur ritrovando in quell’esperienze, in quegli scritti un impegno per la costruzione di un ‘mondo diversamente sostenibile’, con valori a cui quotidianamente cerco di avvicinarmi e con i quali cerco di vivere.
Non immaginavo cosa sarebbe potuto accadere, quali corde interiori avrebbe toccato!
Paolo, responsabile dell’associazione Quilombo, il tramite tra Livorno e il progetto Agua Doçe, mi aveva mandato questa e- mail qualche giorno prima di partire:

Un piccolo avviso per quando sarai laggiù: è naturalmente
possibile fotografare e fare riprese con videocamere,
ma chiedi SEMPRE il permesso di farlo. Dentro
i vari centri o comunità, non ci dovrebbero essere problemi,
mentre per gli esterni, quando sei nella Baixada, chiedi
sempre se puoi riprendere.

La prima cosa che ho fatto appena arrivato, è stata quella di iniziare a riprendere tutto con la telecamera, non volevo perdere nessuno scorcio o situazione ‘particolare’ che confermasse il mio immaginario brasiliano, i miei pre-giudizi, i miei luoghi comuni: così al mio ritorno avrei potuto oltre che parlarne, mostrare tutti quei cliché, perché così avrebbe fatto moda (anche se una moda alternativa: in giro visitando e lavorando in favelas!) e perché una volta a casa mi sarei sentito di nuovo a mio agio, nell’ambiente altro da quello del viaggio fatto. Perché oggi anche in queste esperienze c’è il rischio di viverle da turisti, alternativi magari, ma con quell’atteggiamento interiore del consumatore occidentale, quell’atteggiamento borghese dell’accumulare, così occupato a consumare l’esperienza, non interiorizzarla: accumulare l’ennesimo souvenir. L’esperienza la vogliamo intrappolare solo in una scatoletta nera che si chiama VHS o in uno più avanzato che si chiama DVD o in tutta quella tecnologia digitale(ne prendiamo subito le distanze, non le permettiamo di toccarci in profondità!). Non fraintendete, c’è una differenza tra questo atteggiamento e il documentare una situazione per sensibilizzare e coscentizzare su determinate situazioni e realtà (per altro così interdipendenti dai nostri stili di vita): per fare questo dobbiamo essere toccati nel cuore prima di tutto, il resto è secondario; dobbiamo essere prima di tutto com-mossi dall’esperienza vissuta: qualcosa prima ti tocca e poi ti muove in una direzione, ti smuove il bisogno di far conoscere quella realtà, hai bisogno di parlarne, hai bisogno di sensibilizzare, di comunicare con il tuo essere quello che hai provato, visto e sentito, non puoi farne a meno…
Così ho smesso di riprendere tutto, limitandomi agli aspetti lavorativi, così ho smesso di avere quel superficiale ‘atteggiamento da souvenir’alternativo, così mi sono sentito più aperto a quell’esperienza: le immagini dei luoghi dei volti delle varie situazioni si iniziavano a fissare dentro di me!

Dove stava, prima,questa com-mozione?
Dove stava la poesia del viaggiare, non l’irrazionalità della maggior parte dei viaggiatori, quella poesia che non consiste nel viversi un periodo di distensione lontano dalla routine quotidiana, monotona e iperattiva, lontani dal lavoro, arrabbiature, amori da dimenticare. E’ una poesia che non si coglie nel trovarsi casualmente con altre persone e nell’osservare una realtà diversa e nemmeno nel soddisfare una curiosità. E’ presente invece nell’esperienza realmente e autenticamente vissuta, cioè nell’arricchimento interiore, nel ritrovare antiche verità e leggi in contesti del tutto nuovi, la varietà delle impressioni,l’attesa,serena o ansiosa, di sorprese,ma anzitutto il lato meraviglioso dei rapporti umani con persone che ci sono nuove ed estranee.

Così iniziai a lavorare dentro una delle tante realtà povere della Baixata Fluminense: P.Paulista. Essere dentro significa alzarsi la mattina presto (6,30) per raggiungere il posto di lavoro (un centro di riabilitazione- come fisioterapista e psicomotricista), usare gli stessi mezzi di trasporto del ‘popolo’, mangiare degli stessi usi e costumi del luogo, andare casa per casa (dove c’erano segnalazioni) per orientare una famiglia o una persona ad una fisioterapia fai da te (indicando come costruirsi piccole tavole propriocettive per esercizi, costruirgli piccole e funzionali ortesi con materiali di fortuna come del velcro ad esempio ed elastici…o oli e massaggi più appropriati…consigliare la dove possibile ausili più idonei:deambulatori, materassi antidecubito- sanità assente e clientelismo ‘spudorato’): significa entrare nel tessuto sociale, permearsi di quella realtà, conoscerla non solo in superficie.

Essere dentro significa non dimenticare lo sguardo fisso e imprigionato in un’espressione monotona di Leandro, ragazzo di 19 anni, e da sei mesi in un lettino, arrangiato alla meno peggio,della propria umile casa; contorto, i tendini accorciati e ‘ritirati’ come un indumento infeltrito, fino a fargli assumere una posizione ripiegata su se stessa: SOLO un trauma cranico durante una delle tante e violente feste funky, dove circolano alcool e droga (importate dai più ‘civilizzati’ Stati Uniti e rappresentative di un forte disagio giovanile) . Non dimenticare quel senso di impotenza difronte all’assenza della sanità pubblica e all’incuria di medici che lo hanno seguito per un mese senza posizionargli gli arti evitando quelle retrazioni, quel corpo denutrito e la PEG (alimentazione con sondino gastrico), fino a farlo sembrare un vegetale: abbandonato a se, con solo la madre. Non posso dimenticare l’importanza del contatto corporeo, del massaggio e delle mobilizzazioni (estremamente limitate) e lente come unica terapia: rilassamento e piacere nell’essere toccati. L’odore dell’olio essenziale che si mescola a quello pungente del suo corpo, pulito ma madido di sudore e carico di tossine, è ancora nel mio ‘naso’.Non posso dimenticare lo sguardo della giovane madre, un sorriso amaro sulle labbra, che mi guarda attenta seguendo le mie istruzioni, che recepisce nonostante il mio improbabile portoghese- quali altri linguaggi esistono, quali Misteri!?-il dolce per il mio ultimo giorno di terapia con Leandro, la gratitudine per questo inaspettato straniero, arrivato per caso tra i dimenticati, dal portoghese arrangiato e nato lo stesso giorno di quel figlio sfortunato!Non posso dimenticare quanta gratitudine ho provato io per tutto quello che ho ricevuto da loro. ‘Sono la gente che ho incontrato. Non è un caso chi incontriamo’ , dice Zanotelli!

Non mi posso dimenticare lo sguardo ed il sorriso un po’ semplicione e aperto di Ocecile moglie di uno dei pescatori di gamberi colto durante una cena nella loro umile casa, la loro ospitalità, i loro figli stipati in una stanza dove dormire in cinque. Non posso dimenticarlo. Forse mi sfuggono tutti i nomi, forse non mi ricordo con esattezza i piccoli destini di quelle persone, ma non dimenticherò mai come mi sono avvicinato prima ai bambini, poi alla malinconica e materna donna di casa, Vania, quindi a suo marito Josè dallo sguardo così disponibile e carico di senso di responsabilità per l’incarico appena affidatogli di guardiano della casa, sede amministrativa del progetto ….Perché con loro non avevo da parlare di cose ben conosciute, non dovevo allacciarmi ad una realtà vecchia e comune. E neppure dimentico l’accoglienza del personale del centro dove ho lavorato per quattro settimane: per quella gente ero nuovo, estraneo, come loro lo erano per me e dovevo necessariamente lasciar da parte il convenzionale, basarmi su me stesso e risalire alle radici del mio essere per poter dire loro qualcosa. Ho parlato con loro anche di argomenti insignificanti, ma parlavo da uomo a uomo, tastando il terreno e chiedendo, con il desiderio di cominciare a comprendere un poco questi stranieri, di conquistarmi un pezzo del loro essere e della loro vita e di portarlo via con me: non posso dimenticare questa sensazione di apertura.

Anche a Rio mi è capitata la stessa cosa:
Chi in paesi stranieri non soltanto volge la sua attenzione alle cose famose e più sorprendenti, ma avverte la necessità di afferrare di essi la realtà più vera e profonda e vuole interiorizzarla con amore, noterà che incontri casuali e fatti di poco conto appariranno nel ricordo come rivestiti per lo più di un particolare splendore. Se appunto ripenso a Rio, non vedo innanzitutto il Cristo Redentore o il Pan di Zucchero, ma l’autobus che mi conduceva a quella città dove conversai, con la bella e bionda ragazza che mi stava accompagnando,Kathia, degli usi e costumi locali e dove percepii la città a me nota attraverso libri e stereotipi, come qualcosa di vivo, una città con cui poter parlare e che potevo afferrare con le mani. Non mi sono sfuggiti comunque quei monumenti, credo però di averli vissuti in modo migliore e di essermene appropriato con cuore più aperto. Non ho visitato musei, in compenso mi ricordo delle serate trascorse in piazza nel piccolo paese di Suruì, così povero, a vedere qua e là danzare il forrò, o chiacchierando in cucina con ‘i guardiani della casa’ dove ero ospitato, delle umili case dove discorrevo con i miei pazienti mentre facevamo terapia, dove si parlava in maniera accesa delle elezioni politiche, si canticchiava melodie in italo-portoghese e arie di opere e canzoni popolari. Queste bazzecole sono diventate spesso i miei più preziosi ricordi. Senza dimenticare quelle colline così radunate a due a due da sembrare seni materni, abbondanti e accoglienti. E i centinai di bambini dai sorrisi solari: quei due che mi si aggrappano alle gambe quella stretta al cuore, quei pianti. Quella ragazzina dallo sguardo segnato dalla sofferenza: così adulto.
Ma ogni viaggio deve avere un contenuto, un senso ben preciso se si vuole vivere in modo profondo. Se uno si aggira per curiosità insulsa in paesi la cui intima natura gli rimane estranea e indifferente, fa qualcosa di sconveniente e ridicolo. Come un sogno, un progetto a lungo sognato,un’amicizia o un amore per cui si compiono sacrifici, così ogni viaggio è un atto d’amore che comporta volontà di apprendere e spirito di sacrificio.Il suo scopo è quello di rendere quel paese quelle persone…un possesso spirituale, che con amore e dedizione deve scrutare questa realtà a lui estranea e tenacemente cercare di comprenderne l’intima essenza. Cosa che ho provato anche e realmente al mio ritorno incontrando una persona a me cara. Il nostro rapporto era cambiato, ma davanti a me non c’era l’ex o la mia dinamica con quella persona, ma c’era tutta la persona con tutte le sue difficoltà e i suoi talenti e i suoi e i miei sentimenti e ciò che avevamo condiviso intensamente: l’essenza del nostro rapporto-bellissima sensazione di vicinanza!
Ma vale la pena di compiere questi sforzi.In un rapporto, in un paese che con zelo ti sei reso familiare e ti sei fatto tuo, ogni prato, ogni roccia, ogni sguardo sul quale hai sostato ti rivelano tutti i loro segreti e ti infondono energie ad altri non concesse.

Si potrebbe dire: ma non si può studiare come botanici, geologi, psicologi, i luoghi e le persone che si incontrano. E’ così certo.Ma io parlo di sensibilità non di nomi.
“Chi riesce a rendersi un paese straniero ben presto familiare e di posare gli occhi sui valori autentici e più preziosi sono le stesse persone che hanno colto il valore della vita, il suo significato, che sanno seguire la propria stella. Una forte nostalgia delle fonti della vita, il bisogno di instaurare un rapporto di amicizia con tutto ciò che vive, opera, cresce e di sentirsi tutt’uno con esso è la chiave che dischiude i segreti del mondo”(H.Hesse). E’ in parte questo quello che ho provato e quello che sento come desiderio incontenibile a cui tendere non solo quando ricordo ma anche quando vivo nelle esperienze quotidiane.
Così quel’Volta sempre’ (ritorna sempre),quel modo di salutarti così caldo e sentito,riecheggia nelle membra, nel cuore e mi lascia una dolce malinconia (saudade): Grazie Brasile, grazie a tutti quei volti incontrati.

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