Da alcuni anni faccio parte del gruppo Fisioterapisti Senza Frontiere, ho partecipato ad alcuni corsi, convegni e a diverse riunioni. Ho avuto così occasione di parlare con molti fisioterapisti che avevano lavorato in Africa, in Asia ed in Sud America. Ho iniziato a capire cosa fosse la cooperazione internazionale e la riabilitazione su base comunitaria. Poi ho avuto l’occasione di andare in Tanzania presso l’Associazione Nyumba Ali. In quel breve soggiorno è nata una buona collaborazione che ci ha portato ad organizzazione il “Corso di formazione per Assistenti di bambini disabili”, il primo evento formativo sul tema della disabilità nella Regione di Iringa nel cuore della Tanzania. Hanno aderito al progetto 4 Centri: due associazioni, una ong ed una missione che hanno inviato 18 studenti. La prima parte del Corso, che prevede tre successivi steps nell’arco di 7 mesi, si è conclusa il 18 Marzo. Le lezioni sono state tenute da 4 docenti: la sottoscritta, fisioterapista, e la Psicologa Viviana Lionetti del CAR S.Stefano di Fabriano, Claudio Pierandrei, fisioterapista, e Magda Pagani, infermiera, della ASL di Pedaso. La prima parte del progetto si è conclusa in modo positivo con soddisfazione degli studenti e degli Enti. La strada è però ancora lunga e si potrà trarre un bilancio positivo solo se gli studenti riusciranno a trasferire gli apprendimenti nella loro attività quotidiana. A questo scopo, una fisioterapista di Venezia che ha scelto di fare la tesi del master sul nostro progetto, seguirà i corsisti nel loro ambiente di lavoro per osservare e quindi incentivare le strategie più efficaci per sviluppare un percorso di crescita del personale al fine di renderlo competente, responsabile ed autonomo nel proprio lavoro.
La mia esperienza nella cooperazione è solo all’inizio ed è limitata ad una ristretta zona dell’Africa, eppure molti sono gli interrogativi che mi sono posta e che vorrei porre all’attenzione di chi ha più esperienza di me ed ha partecipato a progetti di cooperazione internazionale. Il primo quesito riguarda la formazione. Prima di iniziare a preparare il corso mi sono documentata ed ho letto “Disabled Village Children” e “Training in the community for people with disability” che bene illustrano i contenuti che debbono essere presenti in una formazione-base rivolta a persone con un basso livello di istruzione. Nonostante la maggioranza dei progetti nei Paesi poveri preveda una parte formativa, non sono però riuscita a trovare nulla riguardo alle metodologie didattiche che vengono comunemente adottate. Avrei voluto attingere dalle altrui esperienze, ma su Internet non sono riuscita a trovare informazioni su come vengono impostate le lezioni, quali le metodologie adottate per far partecipare gli studenti, quali le strategie per sostenere gli apprendimenti nel tempo e quali gli indicatori per valutare l’efficacia della formazione. Allora ho cercato di vedere come altri colleghi avevano affrontato il problema ed ho scoperto che, nonostante avessero partecipato a progetti di grosse ong, l’approccio alla formazione era stato molto lasciato alla loro libera iniziativa. Sicuramente questi colleghi avranno svolto un ottimo lavoro, ma dove sono i resoconti del loro operato? Perché le esperienze non vengono valorizzate e messe a disposizione di altri colleghi?
Un’altra domanda mi è sorta avendo osservato che laddove era passato un fisioterapista, restava una traccia inequivocabile: la mobilizzazione passiva! Qualunque fossero le patologie e l’età dei pazienti, quello era il simbolo dell’atto riabilitativo. Ho discusso a lungo con l’altro fisioterapista presente al corso di questa realtà che io definirei un problema. Come mai, gli chiedevo, in un centro dove ci sono solo bambini con paralisi cerebrali infantili, a tutti viene fatta la mobilizzazione passiva? Lui sosteneva che essendo essa la cosa più facile da imparare era quella che veniva meglio appresa e che, per questo motivo, veniva poi generalizzata a tutti. Forse sarà così, ma il mio dubbio resta: non sarà che i fisioterapisti che si rendono disponibili hanno poca esperienza in riabilitazione in età pediatrica e che la mobilizzazione passiva venga insegnata perché è la loro risposta al problema? E se avessi ragione io allora mi sorgerebbe un’altra domanda: perché mai un fisioterapista che qui in Italia non si prenderebbe la responsabilità di trattare un bambino se non ha la preparazione adeguata, in Africa si fa coraggio e ci prova comunque? Forse perché qualunque cosa è meglio di niente? Ma siamo davvero convinti che la mobilizzazione passiva fatta a tutti sia meglio di niente?
Cari colleghi, vi prego di prendere questo mio intervento come uno spunto di riflessione. Quello che ci tengo a sottolineare, è che non voglio assolutamente criticare nessuno, perché, come ho detto, la mia esperienza è troppo limitata. Le mie domande non nascondono un giudizio, ma sono dei veri punti interrogativi a cui spero qualcuno voglia rispondere.
Ft Valeria Poeta
Ottobre 2011